Anna Eörsi

Da Medea attraverso l’Amore a Tersìcore

Nuovi appunti alle rappresentazioni delle muse nello studiolo della Villa Belfiore

 

 

I. 1. “I ministri delle Muse sono tutti gli uomini scientiati”[1]

Quando Leonello d’Este decise di far decorare il suo studiolo con dei quadri rappresentanti delle muse, ovviamente non ragionò in forma e contenuto ma, anche se in modo incoscente, attraverso questa serie desiderò far rivivere l’antichità in tutti i suoi versi. Con questa sua idea si rivolse a Guarino da Verona il quale trovò interessante il progetto della serie delle muse. La sua lettera di risposta testimonia che l’umanista si mise a studiare accuratamente il tema. Egli, come gli era abituale, affrontò il problema sotto l’aspetto filologico ed etimologico. Il suo concetto sulle muse, al contrario del mio parere precedente e del comune senso[2], non è particolarmente eccentrico. Egli definisce le muse “una specie di idee e di intelligenze, che hanno inventato diverse attività e diverse arti...”[3], e ciò corrisponde perfettamente all’idea antica formatasi su di esse. Perché nell’antichità le muse non furono inventori, patroni e maestri solo di certe arti ma anche di tante nozioni utili e intelligenti.[4] Platone collega la parola musa con i concetti di ricerca, pensiero, filosofia, Diodorus Siculus invece con l’insegnamento.[5] Sui sarcofagi dell’epoca imperiale esse sono le personificazioni dell’armonia dei pianeti che garantiscono immortalità ai meritevoli: non solo a poeti e musicisti ma anche a saggi, filosofi e anche inventori.[6] La tradizione antica – pur in forma surgelata/asciutta, rimase viva anche più tardi. La parola musa da tanti altri anche in seguito viene ritenuta derivante dalla ricerca.[7] Partendo dall’etimologia dei loro nomi esse rappresentano i vari gradi dello studio, dell’acquisto della nozione[8] e/o gli inventori delle discipline nonché dei generi di musica e di letteratura.[9] In questo modo le nove donne astratte nel Medioevo entrano in stretto rapporto con le arti liberali ma conservano anche il loro legame con i pianeti.[10]

Anche Guarino conosce e segue questa tradizione. Anch’egli fa risalire il nome musa alla parola ricerca, e le donne anche da lui rievocate sono inventori nonché insegnati delle varie arti, discipline e utili attività. L’umanista veronese si discosta dall’abituale schema in tre casi. Secondo la sua proposta due muse, Talia e Polimnia, diventano patrone dell’agricoltura, Erato invece non è patrona della poesia d’amore ma del matrimonio onorato. Ma le proposte di Guarino non sono senza esempi nemmeno in questo caso: le loro precedenti si possono trovarle in testi sia antichi sia medievali. Thaleia (Talia) significa “prospero” quindi, nel corso dei tempi, la musa Talia più volte e in più modi veniva collegata all’agricoltura.[11] Erato (“graziosa”) in genere è l’ispiratrice della poesia d’amore, da qui è breve la strada al matrimonio.[12] L’unica possibile fonte finora conosciuta di Guarino è il commentario di Giovanni Tzetze a Le Opere e i Giorni dell’Esiodo.[13] Tornerò ancora a spiegare perché egli trovò congeniale questo testo greco. Per il momento devo ammettere che nemmeno quest’associazione, similmente alle altre, doveva essere unica in quell’epoca. Ne sono testimoni le diverse fonti, concernenti simili accoppiamenti, della seconda metà del secolo XV probabilmente indipendenti dalla tradizione ferrarese. Ne sono esempi il commentario di Orazio di Cristoforo Landino opppure l’opera intitolata Genealogia deorum di Gianfrancesco Boccardo (Pilades), umanista bresciano, pubblicata nel 1498. Quest’ultima è sfuggita all’attenzione degli studiosi di questo tema.[14]

 

I. 2. De Musis a Leonello principe acceptis Ferrariae[15]

Guarino non fece altro che attualializzare, secondo il gusto del suo principe, l’idea più o meno tradizionale delle muse. In quell’epoca era quasi un luogo comune indicare Lionello come orgoglio delle muse, Ferrara come residenza delle muse. La stessa – prima - formula appare anche alla fine della lettera suddetta del Guarino. Quest’ultima, invece, seguendo l’antica tradizione, figura in relazione con la pace e con il benessere come per esempio anche nel panegirico di Janus Pannonius dedicato a Guarino.[16] Le muse dello studiolo nella Villa Belfiore sia da Leonello sia da Guarino dovevano venire dedicate ai patroni del “buon governo”.[17] Ambedue sapevano che „beato chi è amato da loro, perché n’esce voce dolce, e tanto piú i regi, i quali per lor dono divengon saggi e giusti, e ritengono i popoli raggionando e ne’ conviti cantan leggi ottime e pudici costumi”.[18]

Il vano decorato con questa serie di muse fu il primo studiolo principesco nell’Italia d’epoca e, nello stesso tempo, anche uno dei primi museion dell’epoca moderna. Le due nominazioni allora indicavano simili funzioni. Il museion conprendeva diverse cose oltre alla raccolta di cose antiche; sull’analogia della famosa Biblioteca di Alessandria, descritta da Strabone, il museion offriva spazio soprattutto a diverse attività intellettuali.[19]

Nello studiolo della Villa Belfiore si discuteva, tra l’altro, degli effetti del buon governo: arti (Euterpe, Melpomene, Tersìcore), storia e fama (Clio), morale (Erato), stelle (Urania), scienze e poesia (Callìope) nonché piaceri offerti dalla terra (Talia) e agricoltura (Polimnia).

 

I. 3. „agrestem tenui meditabor harundine musam”[20]

Quest’ultimo aspetto, e coè, l’importanza più grande del solito – per le allusioni alla fiorente agricoltura a Ferrara – fino ad oggi venne spiegata sempre in modo inadeguato.[21] Lo spirito del luogo poteva giocare un ruolo definitivo nell’accostamento – più volte ripreso – tra le muse e la natura. Il museion come residenza antica delle muse (tesi conosciuta anche nel Rinascimento) in genere veniva accostato alla natura, all’ambiente pastorale.[22] L’intero complesso architettonico della Villa Belfiore, se non per la sua architettura, per la sua locazione e per la sua funzione in ogni senso può essere considerato predecessore della villa dell’umanesimo. Essa venne costruita fuori le mura Nord di Ferrara con giardino e con orti, campi e vitigni.[23] I suoi abitanti si rinfrescarono in spirito e in corpo in questo ambiente lontano dalla città.

Fu proprio Guarino da Verona uno dei primi umanisti a far rivivere, già alla fine degli anni 1410 e in base ad esempi letterari antichi, l’idea della villeggiatura. Nelle sue lettere scritte a Valpolicella egli fece elogio alla villa come teatro del rinfrescamento spirituale e fisico dove l’aria buona, la quiete, il panorama variopinto, la terra fertile contribuiscono tutti ai piaceri della vita in campagna.[24] Fu inevitabile che prima o poi anche la letteratura bucolica potesse averne l’interesse. Infatti, proprio negli anni della realizzazione della serie delle muse si svegliò un interesse particolare per la poesia pastorale proprio nella scuola dell’umanista veronese: venne studiato sotto l’aspetto filologico l’opera di Virgilio, vennero scoperti Teocrite, e Battista Guarino, Tito Vespasiano Strozzi, Matteo Maria Boiardo cominciarono a scrivere le loro prime ecloghe.[25]

In questo contesto quindi si capisce Guarino, per descrivere Polimnia, perché si rivolse a Tzetze: egli, similmente al suo predecessore del secolo XII, a proposito di questa musa potè pensare all’agricoltura „da molti incantata”, „desiderata e in ogni epoca festeggiata”.[26] Egli, infatti, pensò alla benefica attività e al proficuo effetto nella civiltà dell’agricoltura che da Alvise Cornaro vennero laudati come santa agricoltura.[27]

A mio parere Polimnia dipinta nello studiolo della Villa Belfiore è la prima – moderna – personificazione della musa pastorale (fig.15).[28] Lo spiccato puritanismo della sua figura e del suo abbigliamento che la rendono molto diversa dalle altre possono essere attribuiti all’idealizzazione di questa semplicità pastorale.[29] La sua rappresentazione (insieme con i motivi del fondo) poteva essere accompagnata dalle conversazioni sui piaceri della vita in campagna nonché sulla poesia bucolica.

 

II. „Quot capita, tot sententiae”[30]

            Oggi chiamerei „programma” la lettera di Guarino solo in riferimento a Rimini, per lo studiolo di Ferrara non più. E’ evidente che questo scritto poteva essere solo punto di partenza per ulteriori conversazioni sulle muse che sollecita lo stesso Guarino con la citazione „quot capita, tot sententiae”. Sembra logico supporre che le numerose differenze tra il testo e le immagini realizzate siano dovute proprio a queste discussioni[31], oppure proprio la mancanza di discussioni di questo genere può confermare che a Rimini vennero seguite letteralmente le indicazioni di Guarino.

            Prima vediamo qualche dettaglio della serie di cui non si parla espressamente nella lettera e che probabilmente sono frutti delle conversazioni tra gli umanisti e pittori.

            Oltre al già menzionato esempio, cioè, Polimnia (e i motivi del fondo), mi sembra appartenente a questo gruppo di dettagli quella soluzione assai rara che sulla pancia prominente di più figure femminili della serie si apre il manto (figg. 2,3,4).[32] Gli umanisti e i pittori lo interpretavano allo stesso modo: significava la fertilità. Guarino poteva raccontare agli altri quello che Tzetze sottolineava continuamente, e cioè, le muse elencate da Esiodo non erano vergini ma madri fertili.[33] I linguisti potevano ricorrere anche a dizionari in circolazione dove il nome germen (germoglio, rampollo) viene rapportato con il verbo gerere (gravidanza).[34] I pittori prendevano il motivo dell’apertura del manto dalle rappresentazioni di Maria (fig.1).[35] La soluzione dell’immagine illustra le parole, le parole sono corrispondenze adeguate di questo dettaglio dei quadri. Nel caso di Erato il motivo allude al concepimento dei figli, alla fertilità del matrimonio (fig.2).Nel caso di Talia le parole concepimento/germoglio/frutto potevano essere interessanti anche dal punto di vista dell’etimologia, la loro rappresentazione più palese è la gravidanza (fig.3).[36]

            Riguardo la strana decorazione sulla testa di Talia, la corona di grano, non c’è traccia nella lettera; a ragione si può pensare che essa venne realizzata in base a un consiglio del Guarino espresso a voce. In mancanza di un modello per la rappresentazione di Talia potè proporre lo stesso Guarino di dotare questa musa con l’attributo di Cerere, dea romana della fertilità e dell’agricultura. Questa tesi può essere confermata dall’iscrizione sul quadro. Come sottolinea Dániel Pócs, le parole nella bocca di Talia in realtà alludono a Ceres Legifera.[37] Non si deve meravigliare che per secoli questa figura femminile veniva identificata male.

            A mio parere la pittura rappresentante Erato (fig.2) per più versi può essere considerata in stretto rapporto con le conversazioni.[38] Guarino nella sua interpretazione mette l’accento sulla misura, sul fatto che il matrimonio tiene in equilibrio l’amore. „Erato cura i vincoli coniugali (coniugalia curat vincula) e i doveri dell’amore onesto… Erato col matrimonio regola l’amore”. Nella tradizione di testo[39] e di immagine c’è il modello del ruolo di temperanza e di moderazione di Erato. Tra le arti liberali Erato è patrona della Geometria, simbolo della misura e della temperanza. In questa sua veste i suoi attributi sono il metro o il compasso.[40]

            La figura femminile in rappresentazione frontale della collezione ex-Strozzi-Sacrati tiene obbediente nella mano sinistra un nodo, per me, simbolo del legame coniugale (vinculum coniugii).[41] „Si dipinge il freno in mano, e la misura, perche ancora dentro alli termini delle leggi, i piaceri devono essere moderati, e ritenuti” – scrive più tardi Ripa sul Piacere onesto, e cioè, della personificazione del Piacere onesto, coniugato in matrimonio e da rappresentare in abito nero.[42]

            Dal piede sinistro di Erato pendola in modo accentuato la scarpa rossa. Il levare la scarpa/pantofola costituisce un elemento importante della cerimonia del matrimonio. „Nelle usanze nuziali la scarpa è un dono rituale, e non di rado, ha l’intesso carattere del dono dell’anello” – scrive Raffaele Corso.[43] Dato che le scarpe sono simboli del potere, lo sposo sovente le regala alla sposa. In altri casi la sposa per indicare l’inizio della nuova vita, l’autoconsegna[44] cambia le scarpe: leva quelle vecchie e infila quelle nuove. (L’iconografia del dipinto si collega anche in due punti con il quadro rappresentante la coppia Arnolfini di Jan van Eyck: da una parte per le pantofole rosse, d’altra parte per il motivo prolettico della gravidanza. Ovviamente, non c’è rapporto concreto tra le due opere, l’affinità è causata dallo soggetto.)

            Abbiamo tutta la ragione per pensare che il semplice abito di Polimnia, l’abito aperto sulla pancia che allude alla fertilità, la corona di grano di Cerere sulla testa di Talia, il fatto che dalla metafora del legame nuziale diventi un nodo su uno dei quadri o che il cambio di anelli venga sostituito dal levare delle scarpe siano dovuti alle conversazioni tra i pittori e non pittori. Simili dovevano essere queste discussioni a quelle svolte dagli stessi cerchi sulle imprese del retro delle medaglie con ritratto. Per analogia si possono indicare numerosi dettagli della zona superiore dei quadri dei mesi nel Palazzo Schifanoia realizzati in base ad associazioni di carattere etimologico, glossario, verbale e letterario.[45] Le iscrizioni in greco e latino sotto i quadri erano necessari per la novità del tema, e perché si doveva tener conto sulla possibilità che le figure femminili non potessero farsi valere per sé.

 

III. „tante pitture…di Muse…antiche nelle quali si vede… non esser servata la vera e propria forma loro…”[46]

            Costituiva un problema sia per gli umanisti sia per i pittori la mancanza di un modello di immagine, inoltre ambedue coltivavano il desiderio di attenersi all’antichità.

            Per quest’ultimo i pittori non avevano nessun aiuto: essi non si accontentarono dei segni antichizzanti estrinsechi come per esempio la corona spicea. Non potevano aspettarsi suggerimenti ulteriori e di diversa natura; nei cerchi umanisti ferraresi l’entusiasmo per le forme dell’antichità era di stampo teorico.[47] Gli era di grande aiuto ma non sufficiente che Guarino e gli altri umanisti fornivano nozioni riguardanti le muse o che donavano ai pittori nomi anticheggianti.[48]

            Il problema, nonché la sua soluzione erano simili a quelli dei cicli di Uomini famosi.[49] Anche in quest’ultimo caso si doveva traspostare in immagine le idee storico-letterarie degli umanisti. Anche in quest’ultimo caso risultava eccessivamente difficile modificare le convenzioni figurative del gotico. Anche in quest’ultimo caso è il titolo ad aiutare la comprensione della rappresentazione. Qui invece erano a disposizione anche immagini antiche – sculture e medaglie con ritratto dell’epoca romana; a volte era lo stesso ideatore del programma ad aiutare a trovarle, e pure ci voleva molto tempo e risultava difficile ed era un processo lento appropriarsi del linguaggio formale dell’antichità.

            Nel caso delle muse di Ferrara il compito era ancora più difficile. I pittori dello studiolo dovevano trovarsi dei modelli da soli. Come Guarino, prima di scrivere la sua lettera, si mise a studiare la storiografia standard sulle Muse, così anche i pittori, a loro modo, probabilmente si misero a scoprire i modelli antichi da prendere in considerazione. Come Guarino per il suo studio, prima di scrivere la sua lettera, ebbe preferenze nelle ricerche di fonti, anche i pittori conobbero fonti palesi e anche speciali.

            Tra quelle palesi c’è da sottolineare (almeno per i posteri e nell’odierna fase degli studi in riguardo) la serie di motivi decorativi anticheggianti resi noti dalla bottega di Squarcione di Padova. Bisogna subito aggiungere che questi, come decori architettonici, ghirlande di frutta e fiori, cartellino ecc., a Ferrara alla metà del secolo non erano ovvii. Anzi, Boskovits ha dimostrato che Michele Pannonio – naturalmente si tratta della sua Talia – (fig.3), fu tra i primi ad introdurre lo squarcionismo a Ferrara.[50] E’ anche probabile che la tematica antica delle muse potesse avere qualche ruolo nell’importazione dello squarcionismo a Ferrara. In ogni modo Michele Pannonio fece di tutto per fornire un contorno anticheggiante alla Talia di stile cento per cento gotico: le decorazioni del trono e dei vasi, gli amorini, i rami pieni di frutta, iscrizioni greche e latine.[51] Anzi, questa figura femminile senza ossa e spoporzinata indossa una veste anticheggiante. Non penso solo alla corona di grano ma anche al leggero velo sulla spalla sinistra il quale in questa forma sembra un’invenzione del pittore nonché un germe del bewegtes Beiwerk. Sembra un altro testimone dell’intenzione di rendere anticheggiante il quadro il fatto che il basso del largo abito della musa è portato sul ginocchio destro facendo vedere il panno bianco aderente alla parte inferiore della gamba.[52]

            L’ipotesi molto incerta a proposito di Michele Pannonio, e cioè, che tra i suoi modelli ci furono anche ricordi antichi, nel caso degli altri pittori attivi nella Villa Belfiore, a mio avviso, può essere certezza. Questo compito straordinario portò i nostri pittori anche a terreni di cui finora non si è parlato nella storiografia.

            In Italia in questo periodo prese inizio la moda di collezionare oggetti antichi e di realizzare le copie in disegno quasi per offrire una teca dei motivi antichi. Uno dei primi disegnatori dei motivi antichi fu Pisanello il quale più volte, tra il 1435 e il 1448 quasi ogni anno, comparve nella corte di Leonello d’Este. In questo nuovo genere delle copie di opere antiche ebbe un ruolo importante il già menzionato Francesco Squarcione il quale raccoglieva e faceva copiare dagli allievi gli oggetti della plastica antica.[53] Forse è da considerare l’effetto diretto o indiretto del suo metodo d’insegnamento che alcuni pittori dello studiolo della Villa Belfiore cercarono e trovarono modelli per la rappresentazione della musa su sarcofaghi romani nonché su disegni riproducenti le figure di questi. Si può pensare anche a Ciriaco d’Ancona (1391-1453) i disegni del quale occupano un posto speciale nella storia delle copie delle opere antiche.[54] Il mercante instancabile viaggiò per tutta l’Italia, giunse in Grecia, Bisanzio e in Medio-Oriente e copiò con molto entusiasmo le iscrizioni, architetture e sculture dell’antichità. Egli non fu nè umanista nè artista; egli viene considerato „padre dell’archeologia moderna”. Si sa che nel 1449 egli, trovandosi a Ferrara nello studiolo della Villa Belfiore, potè già ammirare le immagini di Clio e di Melpòmene.[55] Con probabilità egli e i suoi amici padovani, altrettanto rivolti all’archeologia, inoltre Andrea Mantegna, Giovanni Marcanova e Felice Feliciano ebbero qualche ruolo per far conoscere a Ferrara i motivi dell’arte antica.

            Tersìcore

            Penso che il pittore di Tersìcore[56] prendesse dei motivi da un sarcofago rappresentante Medea (figg.4,5).

            Ci sono pervenuti più di una dozzina di sarcofaghi romani con rappresentazioni di Medea; tutti provengono dal secolo II e rappresentano le stesse quattro scene: Giasone e i figli di Medea portano i doni nuziali a Glauce (Euripide 977-8), la morte di Glauce (1190-1194), Medea si prepara per uccidere i propri figli (1236-1250), Medea in fuga (1404).[57]

            A Ferrara dopo la metà del secolo XV sicuramente era conosciuto almeno uno dei sarcofaghi con rappresentazione di Medea. Tre figure (due in alto e una in basso in mezzo) di un foglio, oggi attribuito a Pisanello, del cosiddetto Taccuino di viaggio provengono da un sarcofago Medea (fig.6).[58] Un artista sconosciuto, menzionato come Anonimo dell’Ambrosiana, copiò sei figure (quattro bambini e due adulti) dalla stessa o da una simile opera (fig.7).[59] Anche Mantegna, attivo allora nella Camera degli Sposi, conobbe un sarcofago rappresentante la storia di Medea.[60]

            Possiamo essere sicuri che questi maestri sapevano solo che si trattava di una storia antica e nient’altro. Ancora alla fine del secolo XVII Giovanni Pietro Bellori e Pietro Sante Bartoli, nel 1722 invece Bernard de Montfauçon ritengono rappresentazione di Cerere la storia di Medea (fig.8).[61] I copiatori del primo Rinascimento non s’interessavano alla tematica dei sarcofaghi romani, non cercavano connessione tra le loro nozioni letterarie e i rilievi antichi.[62] Lo conferma il fatto che - senza alcun riguardo al contenuto – essi prendevano le figure staccandole dal loro contesto originale, le raggruppavano in modo nuovo e le collocavano in nuove relazioni tematiche. I disegni realizzati copiando opere antiche sono annotazioni visive per usi ulteriori con formule di pathos da variare a piacere. Potevano essere tirati fuori per esempio quando per un tema antico, come quello delle muse, non c’era a disposizione nessun modello visivo.

            Il modello di Tersìcore, come anche quello dei tre fanciulli in corsa, si trovano sul sarcofago Medea. Quello che riguarda il primo: il leggero girare del corpo della musa, la testa girata verso il lato e in avanti, le braccia aperte mi ricordano la madre procinta ad uccidere. Visto che i bambini corrono davanti a lei non sempre si vede se Medea è seduta o sta in piedi. (La sua posa è simile anche a quella di Glauce seduta in attesa dei doni nuziali.) Trovo molte affinità con il rilievo ora conservato nel Louvre (fig.5).[63] Il braccio destro e la mano tenente il panno sono una variante deformata del braccio piegato al gomito della madre procinta ad uccidere; la mano anche di quest’ultima stringe un pezzo di panno. (La stessa figura - ma senza dubbio stante in piedi e presa da un altro sarcofago Medea – venne trasformata da Agostino Duccio una madre inginocchiata davanti a San Bernardo che prega preoccupata per i suoi due figli. Vedi l’opera del Duccio nell’Oratorio di San Bernardino. Figg. 9,10.)[64]

            Il sarcofago Medea poteva giocare un’influenza anche sulla rappresentazione dei bambini: proporzioni, nudità, passi di danza, panno tenuto in mano, sesso. Quello posto in avanti deve al fanciullo che corre avanti: ambedue le braccia seguono la direzione del movimento, la testa è girata indietro. Il danzante di mezzo deriva dal secondo fanciullo: braccio posto in avanti, slancio, coscia spessa. Il terzo è un miscuglio invenzioso dei due fanciulli tenenti in mano il dono nuziale. Sembra ovvio che anche il velo del quadro di Ferrara derivi dal sarcofago Medea. Il pittore ha capito l’intenzione dello scultore perché originariamente il compito era quello di rappresentare il „peplo schiumoso” (Euripide 786, 949). Campbell descrive i fanciulli come figure saltellanti, sghignanti-digrignanti, urlanti, agitate; sì, essi sono così sui sarcofaghi un momento prima del loro assassinio.[65]

            Guarino originariamente pensava a fanciulli e fanciulle danzanti intorno a Tersìcore; il mito antico in questo caso diede aiuto solo alla rappresentazione dei fanciulli. Ma la lettera di Guarino sicuramente contribuì – pure – al ritorno ai modelli antichi. Benché le nozioni concrete sull’arte anticha dell’umanista fossero assai scarse, dalla sua lettera indirizzata a Leonello si capisce che era ben coscente di quello che ormai, in base alle scoperte di Warburg, è diventato un luogo comune per gli studi in riguardo: i maestri del Rinascimento per la rappresentazione del movimento cercarono modelli sulle opere dell’antichità. Nel decifrare la musa della danza Guarino sicuramente pensava a rilievi antichi quando scriveva: „Tersicore ha stabilito le norme della danza e i movimenti dei piedi usati spesso nei sacrifici agli dei.”[66]

            Oltre alla rappresentazione del movimento è ancora la nudità che i maestri del primo Rinascimento – per esempio anche questo di Ferrara – cercavano di riproporre.

            Altri invece fanno il contrario: vestono il modello prestato dall’antichità.

            Urania

            A mio parere lo stesso succede anche nel caso di Urania (fig.11).[67] Sono d’accordo con Benati per l’analisi del dipinto; anche secondo me esso rappresenta uno stile più sviluppato rispetto il suo pandant di provenienza simile (fig.2). A proposito della posa e del profilo di Urania Benati parla di „attenzione plastica non convenzionale”. Egli richiama l’attenzione al fatto che sul bordo delle pieghe fitte si rispecchia la luce e che sulla gamba destra il panno aderente è „bagnato”. A ragione egli afferma che il rapporto tra il trono e la figura non è risolto. Tutto questo, a mio parere, è dovuto all’influenza non solo di Mantegna e di Piero della Francesca ma anche ai ricordi antichi nonchè ai disegni eseguiti sui modelli antichi.

            Su uno dei fogli della collezione di disegni dell’Ambrosiana, menzionata a proposito di Medea, si vedono diverse copie di opere antiche (fig.12).[68] Di questi disegni si è provato ad interpretarne quattro. La mezza figura femminile in alto a sinistra potrebbe provenire dal sarcofago di Nereo o di Endimione, la figura maschile nuda in basso a sinistra può indicare Vulcano.[69] Secondo l’opinione di più studiosi le due figure rivolte una verso l’altra in basso a destra sono rappresentazioni di Venere e Marte eseguite in base a un rilievo antico romano (fig.13).[70] Penso che il pittore della musa Urania aveva a che fare con questi disegni. La posa della musa, i suoi piedi un po’ girati verso destra rispetto il torso rappresentato frontalmente, la testa girata verso sinistra, il braccio destro e il palmo della mano appoggiati, il braccio sinistro alzato e piegato al gomito e al polso la rendono affine alla figura di Marte. Il profilo plastico di Urania con l’orecchio ben visibile, con i cappelli raccolti, ma anche i suoi lineamenti ricordano la figura femminile in alto a sinistra del disegno. Le fitte pieghe dell’abito con la luce che si rispecchia sui bordi si ritrovano sulla Venere girata verso Marte; la soluzione anche del suo braccio sinistro e della sua mano sinistra alzati ricordano il braccio sinistro di Urania. La copia del panno bagnato sulla gamba destra della musa di Ferrara rievoca due gambe di figure femminili in altro a destra del disegno. Infine, l’idea del panno gettato sulla spalla sinistra di Urania deriva dal rilievo ossia dal disegno rappresentante Marte.

            Ma dal quale dei due? Le condizioni di equilibrio della musa con l’inchino del torso e con il braccio posto per controbilanciarlo, inoltre la posizione delle gambe – con particolare riguardo alla gamba posta in avanti obliquamente, ormai mancante sul disegno – rendono la figura più vicina all’originale modello romano che al disegno che lo riproduce. In questo modo diminuisce la probabilità che il pittore ferrarese avesse lavorato in base al disegno. Per i legami di stile e di motivi tra il dipinto e il disegno sembra dover escludere l’ipotesi di un comune prototipo, ovvero dell’indipendenza dell’uno dall’altro. Tuttavia, in questo modo si presenta la possibilità di attribuire il disegno e il dipinto alla stessa persona.

 

IV. 1. Anonimo o anonimo?

            Si sa ben poco di questa persona, cioè, dell’esecutore del disegno. Per quasi tre decenni veniva indicata con un nome, ma ormai questo non è più valido. Nel 1910 Carlo Vincenzi ha pubblicato tre disegni, conservati all’Ambrosiana, riproducenti copie di sarcofaghi e li attribuiva a uno scultore del cerchio di Pisanello.[71] Nel 1950 Degenhart riteneva appartenente a questi tre disegni quello che riproduce i motivi del sarcofago Medea: egli definiva tutti i quattro disegni opera elaborata da un’artista mantegnesco realizzata nel cerchio di Pisanello.[72] Nel 1960 Annegrit Schmitt attribuisce ormai i cinque disegni in totale dell’Ambrosiana a un maestro che chiama „Anonymus der Ambrosiana”.[73] Ella lo riteneva il primo maestro moderno intento alla fedeltà archeologica dopo il Pisanello e prima dei copiatori delle opere antiche della fine del secolo. La stessa studiosa nel catalogo della mostra di Pisanello, allestita nel 1966 a Monaco di Baviera e a Venezia, attribuisce tutti i cinque disegni a un maestro lombardo attivo nell’ambiente di Foppa intorno al 1460.[74] Da allora spesso veniva usato il nome Anonimo dell’Ambrosiana. I disegni in genere venivano datati prima del 1466 e attribuiti a un maestro lombardo o mantegnesco.[75] Invece, non c’è consenso né nella valutazione dell’oeuvre né nella sua uniformità. Nel 1986 Arnold Nesselrath – accentando la tesi dell’attinenza originale dei disegni – metteva in questione la datazione e la qualità di queste opere. Egli riteneva copie di Pisanello, realizzate prima del 1455, di debole qualità il foglio rappresentante (anche) la statua equestre di Marco Aurelio (F.265 inf., No.92 v.) come anche tutti gli altri. „…l’Anonimo non è…un grande artista innovatore, ma un dilettante”.[76] Il nostro maestro fittizio da primo disegnatore di spirito archeologico divenne copiatore di copia di opere antiche. Nel catalogo della mostra del 1988 Da Pisanello alla nascita dei Musei Capitolini il nome Anonimo dell’Ambrosiana veniva sostituito da maestri anonimi.[77] Anna Cavallaro – con argomentazioni convincenti sullo stile e sulla tecnica – isola un gruppo comprendente tre disegni realizzati con simile tecnica: punta metallica, penna con inchiostro bruno su carta tinta grigia con lumeggiature di biacca. Questi sono il disegno rappresentante le Muse (F.214 inf., Nr. 2v, fig.16), il corteo marino (F.265 inf., Nr.92v) e il nostro punto di partenza, il foglio rappresentante (anche) Marte e Venere (F.265 inf., Nr.91r, fig.12). „Per questo gruppo di disegni su carta tinta trovo appropriato il riferimento ad un artista dell’ambiente del Mantegna attivo a Padova all’epoca della cappella Ovetari.”[78]

            Dall’offerta della storia delle ricerche, soprattutto per motivi stilistici e ancora di più per quelli storici, sembra più probabile che il pittore della musa Urania, nel caso se è identico al disegnatore dell’Ambrosiana, fosse giunto a Ferrara da Padova, dall’ambiente di Squarcione o di Mantegna.

 

IV. 2. anonimo o Bono?

Bono da Ferrara è seguibile tra il 1435 e il 1451, fu un pittore di orgine ferrarese, allievo di Pisanello che testimoniano lo stile e l’iscrizione del suo San Gerolamo.[79] Nel 1442 ricevette un incarico dall’Opera del Duomo di Siena. Nel 1449 diventò proprietario di una casa a Padova, lavorò nella Cappella Ovetari. Dall’agosto del 1450 fino al 31 marzo 1451 gli venne fornita una somma da Leonello e – dopo la morte di lui – da Borso d’Este.[80] Nel giugno 1451 gli viene pagato per il San Cristoforo firmato („OPUS BONII”) della Cappella Ovetari (fig.15); nell’agosto dello stesso anno venne espulso da Padova per la mancanza di essere iscritto alla corporazione. Sembra più che probabile che allora egli ritornasse a Ferrara; nel 1452 dalla tesoreria del principe tre volte gli vennero assegnate pagamenti[81] secondo più studiosi in parte proprio per il suo lavoro eseguito nella Villa Belfiore.[82] L’ultima sua traccia è di Siena nel 1461.

            Una caratteristica sua sembrano l’accento messo sulla plasticità e, nello stesso tempo, sui dettagli anatomici. Oltre all’influenza di Mantegna egli subì quella di Piero della Francesca e della pittura fiamminga, soprattutto quelle opere di essa che allora si vedevano a Ferrara.[83]

            Rende particolarmente difficile delineare la personalità pittorica del Bono che proprio qui e ora, e cioè, nello studiolo della Villa Belfiore, sta per formarsi lo stile speciale del Quattrocento ferrarese basato sulle fonti padovane e toscane. Questo stile all’inizio era un miscuglio di plasticità ed espressività delle figure nonché della ricchezza dei dettagli su influenza della prima pittura fiamminga. E anche il contrario: da una parte la differenza nello stile dei due dipinti firmati di Bono da Ferrara, d’altra parte la presenza della firma sono caratteristiche di questo periodo di transito in cui la scuola pittorica di Ferrara, ancora senza tradizioni, tenta di creare un suo stile proprio. Lo stesso periodo di transito è segnato anche dal fatto che gli artisti escono proprio in quel momento dalla – fino ad allora usuale – anonimità. (In mancanza della firma probabilmente nessuno avrebbe pensato di attribuire allo stesso pittore il San Girolamo di Londra e il San Cristoforo di Padova; per dimostrare la stessa mano d’autore non basterebbe sottolineare nemmeno l’influenza della pittura fiamminga presente in ambedue dipinti.)

            Nell’identificazione dei pittori operanti nella Villa Belfiore ci rende prudente che nella Ferrara di allora si conoscono diversi nomi di maestri non collegabili a precise opere. Nella stessa Villa Belfiore lavorò per esempio un pittore di nome Alfonso di Spagna di cui non si sa proprio niente.[84] (D’altro canto nei documenti pubblicati da Franceschini tra i massimi pittori d’epoca attivi a Ferrara Pisanello viene menzionato solo sette volte, Mantegna solamente una volta, Piero della Francesca nemmeno una volta. Michele Ongaro non viene citato dalle fonti in relazione allo studiolo invece, in base alla sua firma, si suppone con una quasi totale certezza che ci abbiamo lavorato.)

            Considerando tutto questo non escludo che il San Cristoforo della Chiesa degli Eremitani, il foglio rappresentante Marte e Venere dell’Ambrosiana e la Musa Urania dello Studiolo siano opere della stessa mano oppure di due pittori molto affini tra loro. Queste opere devono essere collegate (oltre alle ragioni suddette) in base alla conoscenza e all’accentuazione della struttura anatomica del corpo, all’elaborazione degli effetti della luce che rafforzano la plasticità nonché la rappresentazione dei drappeggi piegati malgrado la ancora più forte somiglianza del „panno bagnato” della musa a quelli delle figure della Cappella Ovetari realizzate dal Mantegna.[85] Il Vulcano del disegno dimostra viva affinità con il San Cristoforo del Bono: la figura stante con la mano sul fianco, i muscoli marcati nella luce forte che arriva dal lato e anche le ciocche stilizzate di cappelli. Il grande piede con le vene gonfiate sopra Vulcano e Venere ricorda anch’esso quello del gigantesco santo della Chiesa degli Eremitani. L’affresco e la tavola sono affini anche per l’elaborazione degli effetti di lume e lustro.

 

V. Polimnia

            Lo stile di Polimnia per molti versi ricorda quello di Urania e anche quello degli affreschi della Chiesa degli Eremitani di Padova (fig.15).[86] Le pieghe del manto sulla pancia delle due muse sono ordinate in modo simile, anche sulla coscia di Polimnia c’è un „panno bagnato”; la figura anche di questa musa mostra l’influenza dei pittori operanti nella Cappella Ovetari.[87] Anzi, l’intera composizione evoca quella di San Cristoforo del  Bono: ambedue mostano una gigantesca figura rappresentata dal punto di vista dal basso con in fondo un paesaggio in prospettiva con colline, popolato con numerosi piccoli particolari. Queste analogie, per certi studiosi, sono dovute all’influenza di Piero della Francesca o, per altri, a quella della pittura fiamminga.[88]

            La musa di Berlino fosse di Bono da Ferrara o meno, il taccuino dell’Ambrosiana fa pensare a una ulteriore relazione, più facilmente dimostrabile, tra l’Urania e la Polimnia. Uno dei disegni di questa raccolta, con la stessa provenienza e con la stessa tecnica di quello raffigurante Marte e Venere considerati modello per l’Urania, ricorda le figure di un sarcofago con Muse (fig.16).[89] La seconda musa senza braccio della striscia superiore per più versi ricorda Polimnia. Il corpo di ambedue muse è rappresentata frontalmente, la testa è rivolta verso sinistra. Sono simili lo sguardo pieno di dignità che guarda lontano, la fronte alta, il grande orecchio ben visibile, ma anche i lineamenti del viso: l’arco delle sopracciglia, la linea dell’occhio, il naso piccolo e la forma della bocca. Ambedue indossano un abito con ricche pieghe, sotto il mento la piega forma un triangolo, le pieghe sono aderenti alla gamba posta in avanti mentre davanti all’altra ricade in paralleli di simile ritmo. L’abito della Polimnia di Ferrara è legato con una doppia cinta, sicuramente su proposta del Guarino. La figura femminile del dipinto, al contrario di quella del disegno, mette uno dei piedi in avanti in modo spiccato quasi per entrare nello spazio reale. Ciò poteva costituire un elemento importante per il nostro pittore dato che il varcare la superficie del quadro era uno dei più importanti elementi unificatori delle muse dello studiolo della Villa Belfiore.

            Non abbiamo nessuna ragione per supporre che il pittore di Polimnia non avesse saputo del disegno da modello che esso rappresentava una musa. Anche questa corrispondenza nel contenuto ci conduce a Padova: tra i centri artistici dell’Italia d’epoca è possibile, e anche con molta probabilità, nella sola Padova, nell’ambiente di Mantegna e dei suoi amici interessati all’archeologia che un tema anticheggiante trovasse il suo vero modello nell’arte antica.

 

V. „questa separazione curiosa”[90]

La serie delle muse nella Villa Belfiore quindi non è solo la prima unità di soggetto mitologico, rimasta più o meno completa, non è solo la prima decorazione rispecchiante la funzione del locale, ma è il primo ciclo di quadri a rappresentare – almeno in parte – la tematica della mitologia in forma antica.

In modo paradossale questi modelli fino ad allora non venivano ripresi per due motivi tra essi contradditori: da una parte perché sono riusciti molto bene e perché sono curiosi, d’altra parte perché sono risultati di equivoci (nel caso di Tersìcore e di Urania).

I pittori riuscirono ad assimilare la forma antica in modo straordinario che non si pensava neanche a una possibilità di modelli antichi. Inoltre, è ben noto che Ferrara non aveva ricordi romani, a Ferrara non ci sono rimasti palazzi e sarcofaghi antichi. Ciò spiega perché non si suppone l’esistenza di modelli antichi nella pittura locale del Quattrocento.[91] A Ferrara i principali testimoni delle connessioni tra l’antico e lo stile gotico sono costituiti dalle medaglie con ritratto che, proprio per questa mescolanza di stile nonché per la tematica profana e per lo stesso cerchio di committenti e fruitori possono essere paragonati alla serie delle muse.

Quello che invece riguarda gli equivoci ostacolanti la riconoscenza dei modelli antichi: nei due casi sopraddetti, benché fossero su modello antico il tema e anche la forma, queste riprese non smentiscono l’”idea della separazione” introdotta da Panofsky. Marte divenne la musa Urania; nel caso di Tersìcore la tradizione figurativa e quella letteraria dell’antichità sono tanto lontane una dall’altra quanto per esempio la storia cristiana e quella antica sul rilievo realizzato da Agostino di Duccio nell’Oratorio di San Bernardino a Perugia. Con altre parole: nella ripresa del primo Rinascimento di queste formule di pathos (dalla madre propensa ad uccidere diventa un’amorevole maestra di danza ritenuta anche personificazione dell’Amore; i disperati figli in fuga diventano fanciulli gioiosamente danzanti) si realizza quell’”inversione energetica” che era di uso corrente nella trasportazione dei motivi antichi in quelli cristiani.[92]

Secondo le nostre conoscenze di oggi il quadro rappresentante Polimnia è il primo dipinto rinascimentale pervenutoci dove il contenuto antico si presenta in forma antica. Precede almeno di un decennio e mezzo il ciclo, finora ritenuto primo di questo genere, e cioè, il Trionfo di Cesare del Mantegna (Hampton Court).[93]

L’ambiente in cui venne realizzata la serie delle muse di Ferrara è caratterizzato dal miscuglio di elementi tardogotici e anticheggianti. A questo è dovuto l’esistenza anche delle muse oltre alle medaglie con ritratto e al ciclo di Uomini Famosi; con tematica antica, forma antica e con l’abbisso, ora grande ora in diminuzione, del primo Rinascimento. Ormai dobbiamo fare attenzione non solamente alla mera esistenza e alle dimenzioni di tale abisso, ma invece conviene ugualmente fare attenzione anche alle modalità variegate, piene di invenzione e entusiasmo con cui questo abisso viene colmato.

 

(megjelent Acta Historiae Artium 45/2004. 3-23.)



[1] Strabon, Geògraphika X. III. C468, trad. di M.A. Buonacciuoli (Venezia, 1562, 191r)

[2] Eörsi, A., Lo studiolo di Lionello d’Este e il programma di Guarino da Verona. In Acta  Historiae Artium Akademiae Scientiarum Hungaricae XXI/1975, 15-52; Le Muse e il Principe. Arte di corte nel Rinascimento padano. (mostra, Milano, Museo Poldi-Pezzoli, 20 sett. – 1 dic. 1991), ed. A. Mottola Molfino, M. Natale, Modena, 1991, vol. I. Catalogo, vol. II. Saggi (in seguito Muse), vol.I. n. 37 (A. Tissoni Benvenuti).

[3] “De ipsis igitur summatim intelligendum est musas notiones quasdam et intelligentias esse, quae humanis studiis et industria varias actiones et opera excogitaverunt” (Sabbadini, R., Epistolario di Guarino Veronese. 3 vols, Venezia 1915-19, vol. 2, 498)

[4] p.e. Omero, Iliade 2, 485-492;  Platone, Phaidòn 61; Virgilio, Georgica II 475-482; Cornutus, L.A.,De natura deorum gentilium: De Musis (Basilea, 1543, 16-21) ecc.

Mayer, M., Musai. In Realencyklopädie der klassischen Alterturmswissenschaft. Ed. A.Pauly, Neue Bearb. Von G. Wissowa, K. Kroll, Stoccarda, 1894-1962, vol.XVI (1935), cols 684-687; Curtius, E.R., Europäisches Literatur und lateinisches Mittelalter (1948), 11. Aufl. Tübingen-Basel 1993, 235-241; Otto, W.F.,Die Musen und der göttliche Ursprung des Singers und Sagens. Düsseldorf-Köln, 1955, 35-39; Queyrel, A., Mousa, Mousai. In Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae. Ed. H. Ch. Ackermann, J. – R. Gisler. Zürich, 1981-1997 (LIMC) VI, Zürich-München, 1992, 657-658

[5] Platone, Cratilo, 406a: „Le muse e la musica invece probabilmente presero questo nome dal pensiero (mósthai) e dalla ricerca filosofica”. ; Diodorus Siculus, Bibliothéké hisztoriké IV.6.7.3 (secondo lui la parola deriva da müein).

[6] Cumont, F., Recherches sur le symbolisme funéraire dei Romains. Parigi, 1942, 253-350; Curtius op. cit. 241

[7] S. Isidori Hispaliensis episcopi Etymologiarum libri III. 15,1: „Musae autem appellatae apo tou mósthai id est a quaerendo” (PL. 83, col. 163); Herrad de Landsberg, Hortus Deliciarum. De novem Musis: „Novem etiam muse novem querende sciencie modos designant. Unde et appellantur. Muson enim querere est.” (Schröter, E., Die Ikonographie des Themas Parnass vor Raffael. Die Schrift- und Bildtraditionen von der Spätantike bis zum 15. Jahrhundert. 2 vols. Hildesheim, New York, 1977, II 319.); Boccaccio: „Placet Ysidoro christiano atque santissimo homini, has Musas appellatas a querendo…” (Genealogie deorum gentilium libri, lib. XI, cap. II a cura di V. Romano, 2 vols, vol. 2. Bari, 1951, 539).

Qualsiasi possa essere l’etimologia vera della parola musa quanto io sappia è ancora una questione in discussione – ma sta di fatto che l’inglese to muse (meditare) deriva da questa parola.

[8] Fabii Planciadis Fulgentii Mitologiarum libri tres, lib. I. XV: Fabula de novem Musis (ed. R. Helm, Leipzig, 1898, 25-27). Lo riprende letteralmente Boccaccio (op.cit. 540) e in modo un po’ più loquace Coluccio Salutati, De laboribus Herculis lib. I (ed. B. L. Ullman, 2 vols, Torino, 1951, vol. 1. 43).

Si collega alla stessa tradizione, seguendo però un altro ordine, Paolino Veneto (1334-9) (Schröter op.cit. II 324-6).

[9] P.e. Mythographus I, 114, Novem Musae (Scriptores Rerum mythicarum latini tres. Ed. G.H. Bode, Celle, 1934, 28)

[10] Ettlinger, L. D., Muses and Liberal Arts. Two Miniatures from Herrad of Landsberg’s Hortus Deliciarum, In Essays in the History of Art Presented to Rudolf Wittkower, ed. by D. Fraser, H. Hibbard, M. J. Lewine, 2 vols, London, 1967, vol. 2. 29-35; d’Alverny, M. T., Les Muses et les Sphères célestes. Classical Mediaeval and Renaissance Studies in Honor of Berthold Louis Ullman. Ed. by Ch. Henderson, Jr, vol. II. Roma, 1964, 7-19

[11] P.e. Plutarco, Moralia IX. 14, 745A.; scolio ad Apollonio Rodio (citato da Wilson, N., Guarino, Giovanni Tzetze e Teodoro Gaza. In Muse, II., 83); Paolo da Perugia, „Esiodus iste tractavit de pastoribus et de agricultura. Quem Virgilius est imitatus.” (Genealogie Deorum (1374): Hankey, T., Un nuovo codice delle Genealogie Deorum di Paolo da Perugia, Studi sul Boccaccio 18/1989, 109).

Vedi ancora Schröter op.cit. II. 289.

Nella tradizione di Fulgentius Thaleia rappresenta la fase della comprensione, l’elemento costante delle spiegazioni è piantagione/germinazione:„…Talia, id est capacitas velut si dicatur tithonlia, id est ponens germina…” (op.cit. 26); Confronta con la lettera di Guarino: „..ut et nomen indicat, a germinando veniens”. Al comune denominatore di comprensione e concepimento vedi Papias, De Linguae Latinae Vocabulis: „conceptus tantum in utero acceptus: aut in mente a concipio pis.”

Nelle serie dove le muse vengono corrisposte ai pianeti questa musa sovente appartiene alla Terra, p. e. Martianus Capella, De nuptiis Philologiae et Mercurii I: „Thalia in ipso florentis campi ubere residebat” (ed. A Dick, Lepzig, 1925, 20); un autore del sec. XII: „..Talia, id est opulentia, seu virtutum germinatio; hec est similis Terre germinanti…”(d’Alverny op.cit. 19).

[12] Schröter op.cit. II.289. Nel processo dello studio Erato rappresenta la fase del ritrovamento di similitudine/simile. Anche questo contribuì al fatto che Guarino la fece patrona del matrimonio onesto. Erato diventa patrona del matrimonio alle feste di Pesaro (1475) e di Verona (1492) (Schröter I. 362, II, 124, 297).

[13] Wilson, op.cit. idem e Wilson, From Byzantium to Italy. Greek studies in the Italian Renaissance. Baltimore, 1992, 44. Edizione da me conosciuta: : Ioannou Grammatikou tou Tzetzou diégészisz tón biblión tou Hésziodou, Tón ergón kai hémerón. Tész aszpidosz tou hérakleiosz. Tész theogoniasz, Basel, 1542, 16-28.

L’opera quindi allora venne pubblicata col nome di Ióannész Grammatikosz Tzetzész. Ho il dubbio che quel „Giovan Filopono Grammatico”, citato da Lomazzo alludendo a Rhodiginus come autore che collega Polimnia con l’agricoltura, in realtà non fosse Ioannaes Philoponos, il commentatore di Aristotele, vissuto nel secolo VI, ma il Tzetze vissuto tra il 1110 e il 1185. Gian Paolo Lomazzo, Della forma delle Muse cavata da gli antichi autori greci e latini (1591) In G. P. Lomazzo, Scritti sulle arti 2 vols, a cura di R. P. Ciardi, Firenze, 1974, vol. 2. 613. Vedi ancora Lomazzo, G. P., Trattato dell’arte della pittura, Scoltura, et architettura, Milano, 1585, 597: „Giovanni Grammatico vuole che la Poesia fosse trovata da Calliope, l’historia da Clio, l’arte da piantare da Talia, le Tibie da Euterpe, il canto da Melpomene, i balli da Tersicore, & le nozze & le feste da Erato, la coltivazione da Polinnia, & l’Apologia (sic) da Urania.”

Ludovicus Coelius Rhodiginus nacque intorno a 1450 a Rovigo, compì i suoi studi a Ferrara quindi potè benissimo conoscere la tradizione delle muse in base a Tzetze e di Guarino. („Calliopes inventum esse poesin, scribit Ioannes Grammaticus, nam et Clio historiam comperisse traditur, plantandi artem Thalia, tibias Euterpe, cantum Melpomene, choream Terpsichore, nuptialia Erato et saltationem, agricolationem Polymnia, astrologiam Urania” in: Lectionum antiquarum libri XXX, Basileae 1566, 226). Lo sbaglio di Lomazzo – secondo il quale Johannes Philoponus del secolo VI definisce Thaleia e Polühümnia come patrone dell’agricoltura – viene ripreso da Schröter (E. Schröter op.cit. I. p. 355 e n. 92).

[14] Horatius Flaccus, Quintus opera comment. Christophorus Landinus, Firenze, 1482, Schröter op.cit. II. 287-8. Per Boccardo: Biographie Universelle (Michaud) ancienne et moderne, nouv. éd. tome 33, Paris, é.n. 326-327.

Deorum genealogiae, a burcardo Pylade Brixiano versibus elegiacis conscriptae Liber V. Liber IV:

„Calliopen Graeco primam sermone poetae,

Quod bona vox illi fertur adesse, vocant.

Quod celebret quae gesta canit per carmina, Clio,

Surgit et ex illa gloria, nomen habet.

Hunc inventricem historiae monumenta tulerunt,

Qua nota antiqui temporis acta forent.

Dicta fuit dulces Erato quia cantet amores:

Nam quod eran dicit Graius, amare sonat.

Illius inventum connubia prima fuisse,

Rettulit ad nostros nuncia fama dies.

At quia multiplici cantu viret usque, Thalia,

Inque dies floret Palladis auctus amor.

Hac una arboribus fretos autore serendis,

Rumor ait primos edidicisse patres.

Melpomene a cantu stetit appellatio: verum

Terpsichorae, celeres quod iuvet ipsa choros.

Euterpenque vocant, quoniam delectet et esse

Omnibus assuevit grata canore suo.

Huic primum dulcem modulata est tibia cantum,

Si ratus a priscis sermo refertur avis.

Laudibus a multis, memorive Polymnia mente,

Arvorum cultus, noticiamque dedit.

A coelo Uranie, coelestes promere cantus

Fertur et astrorum praedocuisse vias….” (Ringrazio Judit Sebõ Judit e Sándor Tóth per l’aiuto nella trascrizione e nella traduzione.)

[15] Tito Vespasiano Strozzi, Eroticon Lib.II. titolo della poesia XVIII (Vedi la poesia nella prossima nota.)

[16] Iani Pannonii panegyricus in Guarinum Veronensem 438-41: Per te, Mars alias lituis dum perstrepit oras, Sola vacat citharis Ferraria, sola triumphat Principibus fecunda piis, fecunda disertis Civibus et pariter cunctis habitata Camenis.” Vedi anche la poesia di Strozzi scelta per sottotitolo: „Armorum strepitu Latiis fugiebat ab oris, territa cum sacro Calliopea coro. Excipit hanc divus placida Leonellus in urbe: officiis homines hic ligat atque deos.”

Per la tradizione antica p.e. Le Ode di Orazio, III/4, 37-41 (Cesare riposa ascoltando i soavi consigli delle muse).

[17] Per l’aspetto del „buon governo” della serie dei quadri vedi Eörsi op.cit. 29-30; Varese, R., Il sistema delle „delizie” e lo „studiolo” di Belfiore, Muse II. 194; Molteni, M., Cosmè Tura. Milano, 1999, 29. La prima idea era veramente dallo stesso Leonello: vedi p.e. Settis, S., Artisti e committenti fra Quattro e Cinquecento. Ferrara 1447: l’”invenzione” del principe, In Storia d’Italia, Annali 4, Intellettuali e potere, a cura di C. Vivanti, Torino, 1981, 708 – 711; Pfisterer, U., Donatello und die Entdeckung der Stile 1430-1445. München, 2002, 132

[18] Lomazzo op.cit. 620.

Ritengo inadeguato e troppo speculativo l’interpretazione della serie delle muse da parte di Campbell secondo il quale si tratterebbe di una teoria di poesia in pittura con delle muse eroticamente seducenti. Campbell, S. J., ”Sic in amore furens” Painting as Poethic Theory in the Early Renaissanc. In I Tatti Studies VI/1995, 145-168; Campbell, The Traffic in Muses: Painting and Poetry in Ferrara around 1450. In: Gendered Contexts: New Dimensions in Italian Cultural Studies, ed. J. Hairston, S. Ross, L. Benedetti, New York, 1995, 49-68; Campbell, Cosmè Tura of Ferrara. Style, Politics and the Renaissance City, 1450-1495. Yale University Press, 1997, 29-61; Campbell, „Mantegna’s Parnassus: reading, collecting and the studiolo. In Revaluing Renaissance Art. ed. by G. Neher, R. Shepherd, Brookfield VT. 2000, 71.

[19] Findlen, P., The Museum: its Classical Etymology and Renaissance Genealogy, Journal of the History of Collections I/1989, 59-78 (Belfiore: 62); Per l’affinità di Museion e studiolo: Cieri Via, C., Il luogo della mente e della memoria. In Liebenwein, W., Studiolo, Storia e tipologia di uno spazio culturale, Modena, 1988, VII-IX, XVIII; Cieri Via, C., La fortuna storiografica degli studioli. In Muse II. 152-153; Campbell (op.cit. n.18. 2000 71); Campbell, Giorgione’s Tempest, Studiolo Culture, and the Renaissance Lucretius. Renaissance Quarterly LVI/2003, 303; Per il Museion: Glück, A. In Der neue Pauly. Encyklopädie der Antike, Hgg. H. Cancik, H. Schneider, vol. 8, Stuttgart-Weimar, 2000, 507-511.

[20] Virgilio, Eclogae VI.8.

[21] Eörsi op.cit. 29; Anderson, J., Il risveglio dell’interesse per le Muse nella Ferrara del Quattrocento. In Muse II. 174, 175.

[22] Findlen op.cit. 60. Per le tradizioni antiche e di Petrarca vedi Nichols, Fred J., Petrarch Transplants the Muses. In Avignon & Naples. Italy in France – France in Italy in the Fourteenth Century, ed. by M. Pade, H. R. Jensen, L. W. Petersen, Roma, 1997, 61-68.

[23] Cazzola, F., L’orto di Belfiore, la villa, il barco: una campagna per diletto. In Muse  II. 203-205; A Lodovico Carbone dispiace che lo studiolo si trovi così lontano dalla città perché diventa difficile farlo vedere ai visitatori esteri (Muse  II. 328).

Per il rapporto studiolo-giardino vedi Mariani Canova, G., Il fiore dipinto alla corte di Leonello e di Borso. In Fiore e giardini Estensi a Ferrara, La flora rinascimentale di Luca Palermo, Ferrara, 1992, 46-48; Kehl, P., Die Entwicklung der estensischen Renaissance-Gärten. In Architecture, Jardin, paysage. L’environnement du château et de la villa aux XVe et XVIe siècles. Actes du colloque tenu à Tours du 1er au 4 juin 1992, études réunis par J. Guillaume, Tours, 1999, 76-77.

Per la villa: Heydenreich, L. H., La villa: genesi e sviluppi fino al Palladio. In Bollettino del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, XI/1969, 11-22 (13: Belfiore); Keller, H., Der Musenhof der italienischen Frührenaissance. In Festschrift Herbert Siebenhüner zum 70. Geburtstag. Hgg. E. Hubala, G. Schweikhart, Würzburg, 1978, 77 (Belfiore).

[24] Pfisterer op.cit.175

[25] Grant, W. L., Neo-Latin Literature and the Pastoral. Chapel Hill, 1965, 118-9; Ludwig, W., Die Borsias des Tito Strozzi. München, 1977, 28; Tissoni Benvenuti, A., La restauration humaniste de l’eclogue: l’école guarinienne a Ferrare. In Le genre pastoral en Europe du XVe au XVIIe siècle. Actes du colloque international tenu à Saint-Etienne du 28 septembre au 1er octobre 1978, Publications de l’Université de Saint Étienne, 1980, 25-33.

[26] Tzetze op.cit. 23 (Ringrazio per la traduzione Éva Tordai.)

[27] Muraro, M., Civiltà delle ville Venete. Conferenza tenuta il 23. 10. 1964 alla Hertziana di Roma, Venezia, 1964, 20, 25; Heydenreich op.cit. 12. Per l’attività di bonifica di terra di Leonello e Borso d’Este: Gundersheimer, W. L., Ferrara, The Style of a Renaissance Despotism. Princeton, 1973, 136-8; Di Pietro Lombardi, P., Le imprese estensi come ritratto emblematico del principe. In La Corte di Ferrara. a cura di R. Iotti, Modena, 1997, 201.

Per il rapporto buona democrazia-coltivazione della terra-tradizione bucolica vedi nella traduzione di Nicole Oresme dell’opera di Aristotele: Sherman, C. R., Imaging Aristotle. Verbal and Visual Representation in Fourteenth-Century France. University of California Press, Berkeley, Los Angeles, London, 1995, 240-252

[28] Per i dati vedi la nota 86.

Come l’insieme dello studiolo della Villa Belfiore è il predecessore dello studiolo mantovano di Isabella d’Este, così la Polimnia, insieme con Talia, a Ferrara sono forse le predecesssori di quelle due figure femminili che nel primo piano del quadro Regno delle Muse di Lorenzo Costa rappresentano due tipi della poesia pastorale. (Paris, Louvre Inv. 255.). Per Costa vedi: Wind, E., Bellini’s Feast of the Gods. A Study in Venetian Humanism by Edgar Wind, Cambridge, Mass. 1948, 49-50.

Per il rapporto tra i due studioli vedi Lightbown, R., Mantegna. With Complete Catalogue of the Paintings, Drawings and Prints. Oxford, 1986, 198; Anderson, J., What was Ferrarese about Isabella d’Este’ Camerino? In Corte di Mantova nell’età di A. Mantegna 1450-1550, Roma, 1997, 337 – 52 (non ho potuto consultarlo)

[29] Devo smentire me stessa perché tempo fa scrissi che „non è probabile che i popolari e buoni Lionello e Borso fossero così amanti del loro popolo da voler vedere sempre sotto gli occhi nel loro studiolo la semplice fanciulla del popolo” (Eörsi op.cit.42). Oggi sono convinta che qui si tratti di una molto speciale variante dell’amore per il popolo… Ruhmer differenziò la figura, allora ritenuta allegoria di un mese, per il suo abito semplice. Per il resto la sua descrizione può essere ritenuta giusta: „Gewiss ist sie eine Monatsallegorie, aber keine mythologische, sondern eine bäuerliche….passt sie weniger in das fürstliche studio eines Stadtschlosses als in einen Landsitz.” (Ruhmer, E., Francesco del Cossa. München, 1959, 69.)

[30] Citazione di Terenzio dalla lettera di Guarino per Leonello d’Este del 5 novembre 1447.

[31] Sono dello stesso parere p.e. Sabbadini e Anderson: Sabbadini (op.cit. vol. 3. 406): „…Questa differenza si dovrà o a Guarino stesso, o a suggerimenti di Teodoro Gaza…”; Anderson (op.cit. 184-5): „Alcune conversazioni di corte, quali ad esempio quelle riportate da Decembrio, potrebbero aver condotto al perfezionamento e alla definizione finale dell’iconografia delle Muse.” Vedi ancora Molteni op.cit. 43.

Manca suppone, oltre alla lettera, un’altra fonte ancora sconosciuta (Manca, J., Cosmè Tura. The Life and Art of a Painter in Estense Ferrara. Oxford University Press 2000, 128). Questa fonte sconosciuta, a mio parere, poteva essere da una parte quella serie di conversazioni che accompagnava la realizzazione dei quadri, d’altra parte si può pensare a certe fonti di immagini di cui parlerò in avanti.

[32] Talia, Budapest, Szépmûvészeti Múzeum inv. No. 44; Erato, Ferrara, Pinacoteca Nazionale, inv. 398; Tersìcore, Milano, Museo Poldi-Pezzoli inv. No 1559, e la figura femminile nella National Gallery di Londra (inv. No. 3070).

L’attinenza originale dei sei quadri in tutto è ancora discussa (Muse I. N.93-98). Gilbert a ragione mette in questione la rilevanza delle osservazioni riguardanti la tecnica espresse in occasione della mostra del 1991 a Milano. Io invece sono del parere che né il fatto che Talia e anche Polimnia tengono in mano grappoli di uva matura, nè il fatto che l’iconografia dei quadri si dimostri differente da quella descritta nella lettera non possono essere ragioni per dimostrare la loro non-attinenza. (Gilbert, C. E., The Two Italian Pupils of Rogier van der Weyden: Angelo Macagnino and Zanetto Bugatto. In Arte Lombarda 122/1998, 9-11). L’uva è un attributo particolarmente importante della fertilità della terra che può comparire anche due volte, anzi, la redundanza è una forma per esprimere l’abbondanza. Del resto, l’uva non è dello stesso tipo sui due quadri (confr. I due tipi di rosa nelle mani delle due muse). Visto che la lettera non era un programma direttivo, non bisognerebbe pretendere che la rappresentazione fosse identica alla descrizione insita nella lettera.

Non so né smentire né dimostrare l’attinenza originale dei sei quadri ma ora trovo più argomenti per accettarla che per negarla. Oltre alle evidenti affinità (misura, proporzione, punto di vista dal basso, paesaggio e cielo) hanno una notevole caratteristica comune: le rappresentazioni oltrepassano i limiti del piano del quadro. Le differenze, compresa anche la posa stante di Polimnia, sono motivate più dalle differenti mano dei maestri e dalla differente data della realizzazione nonché dagli esempi di carattere diverso e non dal luogo diverso. (L’inomogeneità è paragonabile alla prima poesia sulle muse del Guarino dove l’umanista parla ora in prima ora in terza persona.)

[33] Tzetze idem; egli elenca ben due volte il nome dei loro figli e anche il nome dei padri dei loro figli.

[34] S. Isidori Hispaliensis Etymologiarum (sec. VI/VII.) lib. XVII. 22 „Germen dicimus surculum praegnantem, a gerendo, unde et germinatio” (PL  82, col.608); Papias, Vocabularium (sec. XI): „germen surculus praegnans a generando dicit generationis principium.” (Venezia, 1496).

[35] Taddeo Crivelli: Frontespizio del libro delle ore Falletti. New York, Pierpont Morgan Library, M 227, fol. 13v. Cieri Via (op.cit. 1988 XIX): fa riferimento alla Madonna Monterchi di Piero della Francesca, Campbell (op.cit. n. 18. 1997, p. 172. n. 65.) ad Annunziata di Tura, Ferrara, Museo della Cattedrale. Vedi ancora la Madonna di Tura di data discussa (Washington, National Gallery of Art, no. 1952.5.29): anche qui come sulla miniatura di Taddeo Crivelli sulla pancia di Maria si apre il manto allacciato sotto il seno e davanti all’apertura, come se sorgesse da essa, si vede scovacciato il logos incarnato.

[36] Mrávik, L., North Italian Fifteenth Century Paintings. Budapest, 1978, 19: „Thalia’s flowing robes give her the appearance of pregnancy, a clear reference to virtues of fertility”.

Anderson op.cit. 175, su Talia: „ …sua veste rossa…aperta sul davanti rafforza il significato della scritta. >Fui io a mostrare agli uomini come seminare la terra<”.

Hauser vede gravida e identifica con Talia la quarta musa da destra sul Parnasso di Mantegna. (Hauser, A., Andrea Mantegnas „Parnass”. Ein Programmbild orphischen Künstlertums. In Pantheon 58/2000, 33).

Per il rapporto tra Talia e fertilità vedi anche la nota 11.

[37] „Plantandi leges per me novere coloni” Pócs, D., Mátyás király hatalmi reprezentációja és Firenze az 1480-as években. A Didymus-Corvina címlapjának értelmezése és a kódex helye a királyi könyvtár tematikájában. Tesi di dottorato (manoscritto), ELTE, Budapest, 2003, 147-149. (Anche qui  si manifesta che nell’idea della serie era importante l’aspetto del „buon governo”.)

[38] Ferrara, Pinacoteca Nazionale, inv.398. Oggi ormai eliminerei anche il punto interrogativo dopo il suo nome. Ella è considerata Erato da Anderson (op.cit.182), da Benati (op.cit.383 – egli però non lo sostiene con certezza), da Mariani Canova (op.cit.46), da Campbell (n.18, 1997, 32 – non sono d’accordo con la sua interpretazione), da Molteni (op.cit. 29,60).

[39] Plutarco, Questiones convivales IX, 14 746F

[40] Erato – Geometria: Schröter op.cit. I. 90; 178; 200; 344; 346, 354, 377, II. 324. Vedi il testo di un libro di scuola della fine del secolo XI: „Eratho que designatur inueniens simile geometriae cum eo versat imaginem, quia numero et pondere bella duci faciet iustis corde cum viciorum genere” (d’Alverny op.cit. 13).

Il metro è l’attributo di Erato accostata alla Geometria nell’illustrazione della cronaca universale di Paolino Veneto (1334/9, Roma, Bibliotheca Apostolica Vaticana, Ms. Vat. lat. 1960, fol. 265r, Schröter op.cit. 178).

[41] I lontani modelli del nodo anche riguardo il rapporto parola/immagine (ma anche per tematica e motivo): sull’affresco rappresentante il Buon Governo di A. Lorenzetti la corda tenuta dai cittadini di Siena, simbolo della loro concordia. (Belting, H., The New Role of Narrative in Public Painting of the Trecento: Historia and Allegory. In Studies in the History of Art, 16/1985, 159; l’affresco giottesco rappresentante l’Obbedienza sulla volta della chiesa inferiore della Basilica di San Francesco ad Assisi: San Francesco in giogo con le briglie tenute da Padre Dio. (Blume, D., Ordenskonkurrenz und Bildpolitik. Franziskanische Programme nach dem theoretischen Armutsstreit. In Malerei und Stadtkultur in der Dantezeit. Die Argumentation der Bilder. Hgg. H. Belting, D. Blume, München, 1989,153)

[42] Iconologia. Padova, 1611, 425. vedi Eörsi op.cit.n.113

[43] Corso, R., Gli sponsali popolari. In Revue des Études ethnographiques et sociologiques 1/1908, 496. Per il soggetto: Bächtold, H., Die Gebräuche bei Verlobung und Hochzeit. Basel, Strassburg, 1914, 249. Scarpa/pantofola nella cerimonia nuziale: Grimm, J., Deutsche Rechtsalterthümer. 3. Aufl. Göttingen, 1881, 155-7; Sartori, P., Der Schuch im Volksglauben. In Zeitschrift des Vereins für Volkskunde 4/1894, 166-173; Jungbauer, G., Hochzeitsschuche. In Handwörterbuch des deutschen Aberglaubens. Hg. H. Bächtold-Stäubli, Bd. 7, Berlin, New York, (1936) 1987, cols. 1325-1332; Danckert, W., Lied der Völker II, Bonn – Bad Godesberg, 1977, 737-8; Bedaux, J. B., The Reality of Symbols: The Question of Disguised Symbolism in Jan van Eyck’s Arnolfini Portrait. In Simiolus 16/1986, 11.

[44] Purtroppo non riesco a capire se il nodo tenuto in mano sinistra dalla figura femminile deriva o meno dal suo abito. Se sì, allora si può pensare a un ulteriore segno dell’autoconsegna. Vedi Corso op.cit. 495, n.2; Danckert op.cit. 738

[45] Lippincott, K., The Iconography of the Salone dei Mesi and the Study of Latin Grammar in Fifteenth-Century Ferrara. In La Corte di Ferrara e il suo Mecenatismo 1441-1598, Atti del convegno internazionale Copenhagen maggio 1987, a cura di M. Pade et al. Modena, 1990, 93-109.

Nell’insegnamento e nello studio della tradizione antica per Guarino erano altrettanto importanti le nozioni etimologiche, geografiche e mitologiche. Vedi Grafton, A. T., Jardine, L., Humanism and the School of Guarino: a Problem of Evaluation. In Past & Present 96/1982, 51-80 (67).

[46] Lomazzo op.cit.595

[47] Per le preferenze letterarie e artistiche e per il rapporto con l’arte antica di Leonello e del suo cerchio vedi: Baxandall, M., A Dialogue on Art from the Court of Leonello d’Este: Angelo Decembrio’s De Politia Litteraria. Pars LXVIII, In Journal of the Warburg and Courtauld Institutes XXVI/1963, 304-326; Baxandall, M., Guarino, Pisanello and Manuel Chrysoloras. In Journal of the Warburg and Courtauld Institutes XXVIII/1965, 183-205; Baxandall, M., Giotto and the orators. Humanistic observers of painting in Italy and the discovery of pictorial composition. Oxford University Press, 1971, 87-96; Curran, B., Grafton, A., A Fifteenth-Century Site Report on the Vatican Obelisk. In Journal of the Warburg and Courtauld Institutes LVIII/1995, 234-248; Syson, L., Gordon, D., Pisanello, Painter to the Renaissance Court. London, 2001, 96-100; Pfisterer op.cit.101-104, 303-306.

[48] Angelo Maccagnino da Ciriaco d’Ancona riceve il nome „Parrasio” in base a un pittore greco di a.C. 5/4. (Muse II. 326, 327). Ritoókné, Szalay Ágnes ha richiamato la mia attenzione al fatto che il pittore citato nelle fonti con nomi Nikolai de Ungaria, Mechile Ongaro, Michele Ungaro, Michielle Ongaro, Michael Ungarus solo nella firma del quadro rappresentante Talia diventa „Pannonio”.

Sulla rappresentazione inadeguata, cioè, di carattere cortigiano-cavalleresco della tematica dell’antichità vedi Tissoni Benvenuti, A., L’antico a corte: Da Guarino a Boiardo. In Alla corte degli Estensi, Filosofia, arte e cultura a Ferrara nei secoli XV e XVI, a cura di M. Bertozzi, Ferrara, 1994, 391, 396.

[49] Schmitt, A., Zur Wiederbelebung der Antike im Trecento. Petrarcas Rom-Idee in ihrer Wirkung auf die Paduaner Malerei.In Mitteilungen des Kunsthistorisches Institutes in Florenz, 18/1974, 167-217; Donato, M. M., Gli eroi romani tra storia ed „exemplum”. I primi cicli umanistici di Uomini Famosi. In Memoria dell’antico nell’arte italiana. a cura di S. Settis 3 vols. Torino, 1984-1986 (in seguito Memoria) II. 97-152

[50] Boskovits, M., Ferrarese Painting about 1450: some new Arguments. In The Burlington Magazine, 120/1978, 385

Questo pittore di origine ungherese doveva avere non poco prestigio se Lodovico Gonzaga oscillava se invitare lui, invece di  Mantegna, a Mantova come pittore di corte. Vedi Venturi, A., Storia dell’arte italiana VII. La Pittura del Quattrocento. Parte III, Milano, 1914, 92; Tietze-Conrat, E., Mantegna. Paintings, Drawings, Engravings. London, 1955, 11 (Col fatto di non essere andato nella corte dei Gonzaga, pur non sapendo, contribuì alla grande fioritura della pittura rinascimentale a Mantova.)

[51] Gombosi Gy., Pannóniai Mihály és a renaissance kezdetei Ferrarában.(Michele Pannonio e gli inizi del Rinascimento a Ferrara.) In Az Országos Magyar Szépmûvészeti Múzeum Évkönyvei (Annuari del Museo di Belle Arti) VI/1929-30, 103; Gombosi, G., A Ferrarese Pupil of Piero della Francesca. In The Burlington Magazine LXII/1933, 72; Boskovits, op. cit. 382-5; Tátrai, V. In Muse op.cit. I. 406.

[52] A proposito del panno raccolto sul ginocchio mi piacerebbe fare riferimento al saggio di Claussen (Claussen, C., Ein freies Knie. Zum Nachleben eines antiken Majestas-Motivs. In Wallraf-Richartz Jahrbuch XXXIX/1977, 11-27), se non sapessi che egli – quasi sempre, ma vedi la sua nota n. 28 – parla della gamba sinistra. Tuttavia, per la storia della sopravvivenza di questo motivo antico questo saggio anche nel nostro caso può essere utile. Non escludo che il nostro pittore avesse conosciuto qualche scultura antica ossia qualche disegno che la riproduce e avesse voluto riprendere questo modello per fini suoi propri. Il risultato è questo: la ripresa della figura – al contrario del panno piegato – gli è rimasta un problema irrisolvibile. Posso pensare a un qualche modello come è la colossale statua di Apollo in porfirio del secolo II che fino al secolo XVIII veniva ritenuta rappresentante una figura femminile (Napoli, Museo Nazionale inv. 6281). In epoca moderna per la prima volta essa viene riprodotta su un disegno di Heemskerck realizzato sulla collezione antica della famiglia Sassi (Berlin-Dahlem, Kupferstichkabinett KdZ 2783) (Vedi Bober, Ph. P., Rubinstein, R., Renaissance Artists and Antique Sculpture, A Handbook of Sources. Oxford, 1986 (in seguito Bober – Rubinstein) No 36 és 479). Questo disegno dell’inizio del secolo XVI rappresenta la statua ancora prima del suo completamento con la mano destra e con il braccio sinistro. La sua posa, compresa la testa, quello che si vede delle sue braccia, la posizione delle gambe con l’abbondante panno accumulato sul ginocchio sinistro sotto il quale si vede la sottoveste sulla parte inferiore della gamba sono tutti elementi che la rendono simile a Talia. (Vedi anche la nota 92.)

[53] Lipton, D., Francesco Squarcione. Ann Arbor 1974, 202-3; Favaretto, I., La raccolta di sculture antiche di Francesco Squarcione tra leggenda e realt. In Francesco Squarcione „pictorum gymnasiarcha singularis”. a cura di A. De Nicolò Salmazo, Atti delle Giornate di studio Padova, 10-11 febbraio 1998, Padova, 1999, 233-244.

[54] F. Scalamonti, Vita Viri Clarissimi et famosissimi Kyriaci Anconitani. ed. Ch. Mitchell, E. W. Bodnar, S. J. Transactions of the American Philosophical Society vol.86, pt. 4, 1996; Huelsen, C., La Roma antica di Ciriaco d’Ancona. Roma, 1907; Schmitt, A., Antikenkopien und künstlerische Selbstverwirklichung in der Frührenaissance. In Antikenzeichnung und Antikenstudium in Renaissance und Frühbarock, Hgg. von R. Harpath, H. Wrede, Mainz, 1989, 1-6.

[55] Vedi Muse II. 326-327.

[56] Milano, Museo Poldi-Pezzoli inv. No. 1559; Muse I. No. 95 (M. Natale): Angelo Maccagnino(?), Cosmè Tura e collaboratore); Manca op.cit. No 22: opera completata da Tura; Gilbert op.cit. 14: Angelo Maccagnino e Cosmè Tura.

Dalla serie su questo dipinto sono stati effettuati i più tentativi di identificazione. Tersìcore originariamente era una musa, alla fine del Settecento veniva definita come rappresentazione dell’Inverno (Natale in Muse I 396), dopo venne completata con un’iscrizione riguardante la Caritas (Natale op.cit.idem). Riacquistata l’originale identità, appena più di un decennio dopo Dillon Bussi la indentificò come la personificazione della Grammatica. (Dillon Bussi, A., Muse e arti liberali: nuove ipotesi per lo studiolo di Belfiore. In Scritti di storia dell’arte in onore di Sylvie Béguin, a cura di M. Di Gianpaolo, E. Saccomani, Napoli, 2001, 80).

[57] Robert, C., Die antiken Sarkophagreliefs. Vol. II. Mythologische Zyklen, Berlin, 1890, 193-203; Koch, G., Sichtermann, H., Römische Sarkophage. München, 1982, 159; Schmidt, M., Médeia. LIMC VI/1 393, VI/2 200-201; Degenhart, B. - Schmitt, A., Gentile da Fabriano in Rom und die Anfänge des Antikenstudium. In Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst XI/1960 (in seguito Degenhart-Schmitt), Kat. No. 1; Bober - Rubinstein, No. 110.

[58] Rotterdam, Museum Boymans-van Beuningen I-523r. Degenhart-Schmitt op.cit. 101, 118; Fossi Todorow, M., I disegni del Pisanello e della sua cerchia. Firenze, 1966, No. 204; Degenhart, B. – Schmitt, A., Corpus der italienischen Zeichnungen 1300-1450, I: Sud- und Mittelitalien. Berlin, 1968, No. 133, Taf. 178b; Cavallaro, A., Cerchia di Pisanello. In Da Pisanello alla nascita dei Musei Capitolini. L’Antico a Roma alla vigilia del Rinascimento, Roma, Musei Capitolini, 24 maggio – 19 luglio 1988, catalogo a cura di A. Cavallaro, E. Parlato, Roma, 1988 (in seguito Da Pisanello), 148 e No. 44, con l’elenco delle precedenti attribuzioni; Elen, A. J., Italian Late-Medieval and Renaissance Drawing-Books from Giovannino de’Grassi to Palma Giovane. Leiden, 1995, No. 15. Per i disegni antichi di Pisanello e per il suo rapporto con Ferrara: Muse I No. 33, 34.

[59] Milano, Biblioteca Ambrosiana, F. 237 inf., Nr. 1707v. Degenhart - Schmitt op.cit. 96, 118; Disegni del Pisanello e di maestri del suo tempo. Catalogo della Mostra a cura di A. Schmitt, intr. B. Degenhart, Milano, 1966 (in seguito: Schmitt: Disegni), No.33; Bober – Rubinstein op.cit. 142; Da Pisanello op.cit. 148 e No 55; Elen op.cit. No. 26. (Per questi disegni dell’Ambrosiana e per la questione del loro maestro vedi anche le note 68-75 e i testi in riguardo.)

Anche il modello del fanciullo in corsa collocato in basso a destra del foglio I-522 conservato fino alla seconda guerra mondiale nella collezione van Beuningen Koenigs del Museum Boymans di Rotterdam doveva essere una rappresentazione di qualche sarcofago Medea (Degenhart – Schmitt op.cit. fig. 68.; Da Pisanello 175).

La maggior parte degli studiosi senza alcun dubbio ritiene modello sia per i due disegni di Rotterdam sia per quello di Milano l’esemplare oggi conservato ad Ancona (Museo Nazionale 907, Robert op.cit. No. 199, Vedi ancora Krautheimer, R., Krautheimer-Hess, T., Lorenzo Ghiberti. Princeton, 1956, 351, no. 66). Di questo sarcofago si hanno notizie solo dalla metà del secolo XVI, allora era murato nella facciata della Chiesa di SS. Cosma e Damiano di Roma. Non si sa del destino degli altri nel secolo XV (Vedi Cavallaro, A. In Da Pisanello op.cit. 89, 147); io non escluderei dagli eventuali modelli anche altri esemplari. Vedi anche la prossima nota.

[60] Lloyd, Ch., An Antique Source for the Narrative Frescoes in the Camera degli Sposi. In Gazette des Beaux-Arts, 91/1978, 119-122, (egli ritiene modello l’esemplare conservato oggi nel Palazzo Ducale di Mantova. Fig. 10.,  Robert, op.cit. No. 196). Secondo Janson Donatello era a conoscenza di un altro sarcofago Medea. (Roma, Museo Nazionale Romano inv. No. 75248: H. W. Janson, Donatello and the Antique. In Donatello e il suo tempo: Atti del Congresso internazionale del Vº Centenario della morte di Donatello (1966) Firenze, 1968, 88).

[61] Steinberg, L., Shrinking Michelangelo. (rec. R. S. Liebert, Michelangelo: A Psychoanalytic Study of His Life and Images. New Haven, 1983) In The New York Review of Books 1984, junius 28, 43-4

[62] Koch-Sichterman op.cit. 7; Bober - Rubinstein 47-48; 141 (Pirro Ligorio sembra un eccezione alla metà del secolo XVI; egli non copiò solo decifrò il soggetto dei sarcofaghi antichi.)

[63] Paris, Louvre Ma 283 (Robert op.cit. No. 195; Baratte, F., Metzger, C., Catalogue des sarcophages en pierre d’époques romaine et paléochrétienne. Paris, 1985, No. 34); Vedi ancora per esempio Berlin, Schloss Charlottenbug, Sk 834b; Roma, Museo Nazionale Romano, inv. No. 222; Roma, Museo Nazionale Romano, inv. 75248

Gilbert op.cit. 14 ritiene strana la posa della testa di Tersìcore e la paragona a quella delle Madonne fiamminghe (Giusto di Ghent).

[64] Gombrich, E. H., Aby Warburg. An Intellectual Biography. Oxford, 1970, 247, 296, Pl. 49 a-b. Anche Warburg ha fatto riferimento all’influenza sul rilievo di Perugia dello stesso sarcofago Medea ma egli pensa a un sarcofago Medea di un altro tipo e a un’altra figura del sarcofago: secondo lui la figura femminile in piedi sul lato a destra del rilievo può essere riproduzione della Medea nel momento della presa del Vello d’Oro. (Robert op.cit. No. 190, Tav. 61, un frammento si trova nel Museo di Antichità di Torino, (LIMC op.cit. Aietes 3; Iason 21; Kreusa II. 15). (A. Warburg, La „Nascita di Venere” e la „Primavera” di Sandro Botticelli. Ricerche sull’imagine dell’antichità nel primo rinascimento italiano. (Hamburg-Leipzig, 1893) In: La Rinascita  del Paganesimo Antico. Contributi alla storia della cultura a cura di G. Bing, Firenze, 12.)

[65] Campbell op.cit. (n.18. 1997) 33: „leaping, grinning ad shouting figures”; 55: „uproarious dancing children”

(Confrontare Euripide 1271-1277).

A proposito dello stile del quadro Maurizio Natale suppone la possibilità dell’influenza di un rilievo indicando però Donatello: „Forse …l’invenzione turiana della Tersicore Poldi Pezzoli rivela..un aggancio diretto con le esperienze dei marmi e dei bronzi lavorati; l’aggetto delle figure dei putti, che combinano l’effetto crudo del rilievo con quello del movimento, presuppongono infatti una osservazione attenta delle opere di Donatello…” Natale, M., Lo studiolo di Belfiore: un cantiere ancora aperto. In Muse I. 41 e idem 402-403; Molteni op.cit. 57.

[66] „Terpsichore saltandi normas edidit motusque pedum in deorum sacrificiis frequenter usitatos.”

[67] Ferrara, Pinacoteca Nazionale, inv. 399. Benati, D. In Muse I. No. 94 („secondo collaboratore di Cosmè Tura”).

[68] Milano, Biblioteca Ambrosiana, F. 265 inf. 91 r.; Vicenzi, C., Di tre fogli di disegni quattrocenteschi dall’antico. In Rassegna d’arte 10/1910, 8; Degenhart – Schmitt op.cit. No. 9, Abb. 101; Schmitt, Disegni No. 30; Bielefeld, E., Zwei antike Bildmotive in der Renaissance Kunst. In Antike und Abendland, 14/1968, 47-51; Bober-Rubinstein op.cit. No. 23a; Cavallaro in Da Pisanello op.cit. No. 49.

[69] Vicenzi op.cit.idem; Nereo in Bielefeld op.cit. 48: Afrodite da un sarcofago Endimione. (Forse la figura femminile sul lato sinistro del rilievo di Agostino di Duccio nell’Oratorio di San Bernardino a Perugia (fig.9) non appartiene a questa stessa famiglia?)

L’uomo nudo con berretto da ambedue gli studiosi è ritenuto Vulcano. Non trovo convincente il ragionamento di Bielefeld secondo il quale il modello dell’uomo nudo doveva essere una – oggi ormai non più ritrovabile - rappresentazione di Marte e Venere completata con la figura di Vulcano (op.cit. 50). Anche se il disegnatore pensava veramente a Vulcano perché dovremmo supporre un modello preciso per la figura di Vulcano? (Come egli pone il dorso della mano destra sul fianco, il suo corpo muscoloso, il suo girare verso destra non lo rendono affine al Giasone sul lato sinistro del sarcofago Medea conservato nel Louvre. Vedi fig.5.)

[70] Párizs, Louvre CP 3747. Vedi simile a New York, Metropolitan Museum, 96.18.162: Bober-Rubinstein op.cit. Abb. 23.

[71] Milano, Biblioteca Ambrosiana, F.214 inf.N.2; F.265 n.91; F.265 n.92. Vincenzi op.cit. 6-11.

[72] Degenhart, B., Michele di Giovanni di Bartolo: disegni dall’antico e il camino „Della Iole”. In Bollettino d’arte 35/1950, 208-202 („cerchia del Pisanello,…ridisegnati, a penna, più di 50 anni dopo, da mano mantegnesca”). Partendo dal suo ragionamento Nicole Dacos nel 1961 attribuisce i quattro disegni allo scultore Michele di Giovanni Bartolo, soprannominato Il Greco, con la data intorno al 1450: Dacos, N., A propos d’un fragment de sarcophage de Grottaferrata ez de son influence à la Renaissance. In Bulletin de l’Institut historique belge de Rome XXXIII/1961, 145.

[73] Schmitt in Degenhart – Schmitt 112: „wie wir ihn nennen, »Anonymus der Ambrosiana«” Il quinto disegno: Milano, Biblioteca Ambrosiana, F. 237 inf., Nr. 1687-1688.

[74] Schmitt, Disegni. 47-48.

[75] Per esempio Fossi Todorow op.cit. 172, No. 332 („Anonimo dell’Ambrosiana”); Winner, M., Zeichner sehen die Antike. Europäische Handzeichnungen 1450 – 1800. Staatliche Museen der Stiftung Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, 1967, 22 („Anonymus der Ambrosiana”, kurz nach 1450); Horster, M., Eine unbekannte Renaissance-Zeichnung. In Archäologischer Anzeiger 90/1975, 427 (Anonymus der Ambrosiana-Zeichnungen, mailändisch um 1460); Vickers, M., The Source of the Mars in Mantegna’s ’Parnassus’.In The Burlington Magazine CXX/1978, 152 (’Anonymus of the Ambrosiana’); Romano, G., Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello. In Storia dell’arte italiana vol. VI. a cura di F. Zeri, Torino, 1981, 13 (gruppo di disegni dell’Ambrosiana anteriori al 1466, un artista in qualche debito verso Mantegna stesso”); Bober – Rubinstein op.cit. 451 (’Ambrosiana Anonymus’, 15th century, North Italian).

[76] Nesselrath, A., I libri di disegni di antichità. Tentativo di una tipologia. In Memoria III. 112.

[77] Nel catalogo gli articoli in riguardo erano scritti da tre persone. Luisa Scalabroni (No. 54, 55, sul verso di quest’ultimo c’è il disegno del sarcofago Medea) va d’accordo con Nesselrath riguardo il disegno rappresentante (anche) la statua equestre, il resto lo distacca da Pisanello e, seguendo Schmitt, li considera i primi disegni intenti alla fedeltà archeologica, „tra Pisanello e la copia dall’antico” (169), per questi ultimi conserva ancora il nome Anonimo dell’Ambrosiana. La voce del catalogo sul disegno rappresentante la statua equestre è firmata da Nesselrath e porta il titolo: „Anonimo settentrionale detto dell’Ambrosiana”(No. 81). Le altre voci sono state scritte da Anna Cavallaro (No.49, 50, 51,; „Anonimo settentrionale del 1460 detto dell’Ambrosiana”. Ella attribuisce i disegni in relazione a Marco Aurelio e all’Arco di Costantino (F. 237 inf., Nr. 1687-1688) a un maestro posteriore dell’Italia Settentrionale attivo a Roma intorno a 1470-75: „Anonimo settentrionale del 1470-75 ca.” (No. 59).

[78] Da Pisanello 156.

Il disegno rappresentane Marte e Venere può avere qualche rapporto anche con il Parnasso di Mantegna: „A similar rhythmical response between Venus and Mars is suggested by Mantegna’s Parnassus of the 1490s in the Louvre” (Bober – Rubinstein, 66). Vedi ancora Vickers op.cit. idem.

[79] London, National Gallery, No.771: „.BONVS. FERRARIENSIS./.PISANJ. DISIPVLVS.”

Per Bono vedi Conradi, K., Bono da Ferrara. In Saur Allgemeine Künstlelexikon (Bd. 12) München, Leipzig, 1992, 598, con la storiografia precedente.

Annegritt Schmitt gli attribuì ancora numerosi altri disegni realizzati nella bottega di Pisanello: Schmitt, A., Bono da Ferrara. In Pisanello und Bono da Ferrara, Bernhard Degenhart und Annegritt Schmitt, München, 1995 (in seguito Pisanello und Bono) 229-266. Dachs attribuisce a Bono altri fogli della cerchia di Pisanello: Dachs, M., Pisanello in neuem Glanz. In Pantheon LIV/1996, 176-177, anche in Syson – Gordon op.cit. 202-210.

[80] Franceschini, A., Artisti a Ferrara in età umanistica e rinascimentale, Testimonianze archivistiche. Parte I dal 1341 al 1471. Ferrara, Roma, 1993: 645s; 646 mm; oo; tt; xx; 661 x.

[81] Franceschini op.cit. 683 rr; zz; 684 mm

[82] Venturi, A., I primordi del rinascimento a Ferrara. Roma, Torino, Firenze, 1884, 24: „La nuova fioritura artistica alla corte ferrarese spunta circa al 1450. In questo tempo troviamo Bono intento a dipingere una loggia del Migliaro, nel palazzo di Belfiore e nelle case di Casaglia.”; Campori, G., I pittori degli Estensi nel secolo XV. In Atti e memorie delle R. R. Deputazioni di Storia Patria per le Provincie di Modena e Parma. ser. III. vol. III. 1885 (Estratto 1886 20): „Opera di maggior conto…fu la pittura nello studio, forse di Belfiore, di cui troviamo un semplice annotamento”; Zanini, W., Opere che gravitano intorno allo studio di Belfiore. In Musei Ferraresi 5/6, 1975/76, 16, Eberhardt, H. - J., Lebensdaten des Bono da Ferrara. In Pisanello und Bono 275-276.

[83] L’influenza di Mantegna e di Piero della Francesca è sottolineata da tutti gli studiosi. Vedi nota 79. Per l’influenza della pittura fiamminga vedi Ames-Lewis, F., Painters in Padua and Netherlandish Art. 1435-1455. In Italienische Frührenaissance und nordeuropäisches Spätmittelalter. Kunst der frühen Neuzeit im europäischen Zusammenhang, Hg. J. Poeschke, München, 1993, 186, 188.

Nel 1934-ben Longhi attribuì a Bono la Madonna conservata nel Szépmûvészeti Múzeum di Budapest (inv. 1030. Longhi, R., Officina Ferrarese. (1934) Firenze, 1975, 27). Altre attribuzioni: San Giovanni Battista e San Prosdocimo. London, coll. Harris, Vedi Borenius, T., Bono da Ferrara. In The Burlington Magazine XXXV/1919, 179; trittico Poggibonsi, New York, Vedi Ruhmer, E., Roberto Longhi, Officina Ferrarese. Firenze, 1956 rec. In Zeitschrift für Kunstgeschichte 20/1957, 89 (Idem viene menzionata come opera di Bono la testa colossale sulla volta destra della Cappella Ovetari); San Giovanni Evangelista, Roma, Banca Nazionale del Lavoro, Vedi Todini, F., in Muse I. No. 73; San Cristoforo e San Sebastiano, Ferrara, Pinacoteca Nazionale, Vedi Natale op.cit. (n. 65) 31.

[84] Franceschini 644q, u; 646nn; Natale op.cit. (n.65) 24

[85] „…l’effetto di „pagno bagnato” sulla gamba destra (ancor più marcato nel disegno sottostante..) denota una conoscenza già matura della cultura padovana.” (Benati in Muse I. 392). Boskovits afferma che benché lo stesso Mantegna nel 1449 fosse giunto a Ferrara „it was probably only after the execution of the first frescoes of the Ovetari Chapel….and the return of Bono da Ferrara to his native city in 1451, that Mantegnism begun to penetrate into Ferrarese culture.” Boskovits op.cit. 378

[86] Berlin-Dahlem, Staatliche Museen, Gemäldegalerie inv. No. 115A. Muse I. No. 97 (A. Bacchi, Anonimo artista ferrarese). Ruhmer attribuisce allo stesso pittore, al giovane Francesco del Cossa, l’Urania e anche Polimnia. (Ruhmer op.cit. n.27. 67-69). Per il rapporto stilistico tra i due quadri vedi ancora Bacchi op.cit. 415; Benati in Muse I. 392, 393-4; Molteni op.cit. 65.

[87] Secondo Arslan il punto di vista dal basso, la rappresentazione del paesaggio e del drappeggio del quadri di Berlino evocano lo stile di Mantegna e di Bono: Arslan, W., Roberto Longhi. Officina Ferrarese. Roma, Le Edizioni d’Italia, I, 1934, rec. Zeitschrift für Kunstgeschichte 5/1936, 176. Bacchi paragona il fondo del quadro di Polimnia a quello del martirio di San Giacobbe di Mantegna a Padova (Bacchi op.cit. 416).

[88] Per Piero vedi Cocke, R., Piero della Francesca and the development of Italian landscape painting. In The Burlington Magazine CXXII/1980, 628; Per la pittura fiamminga vedi Ames-Lewis op.cit. 187-188

[89] Milano, Biblioteca dell’Ambrosiana, F. 214 inf. 2v. In Degenhart – Schmitt op.cit. 133; Da Pisanello No. 51. Il sarcofago oggi si trova nel Kunsthistorisches Museum di Vienna (Antikensammlung Inv. 171), Wegner, M., Die Musensarkophage. Berlin, 1966, No. 228.; Bober-Rubinstein op.cit. No. 38.

[90] Panofsky, E., Studi di Iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento. (New York, 1939) Torino, 1975, 24 („…questa separazione curiosa tra motivi classici investiti di significato non classico, e temi classici espressi mediante figure non classiche…”).

[91] Gundersheimer op.cit. 237. Vedi per esempio Agosti, G., Farinella, V., Settis, S., Passione e gusto per l’antico nei pittori italiani del Quattrocento. In Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di lettere e filosofia, ser. III. vol. XVII. 4. 1987, 1091: „Le propensioni ferraresi ad una pittura prospettica, pietrificata ed iperornata, non prevedevano richiami precisi all’arte del mondo antico…”

[92] Per l’”idea della separazione” vedi p.e. Panofsky op.cit. 20 – 38; lo stesso Rinascimento e rinascenze nell’arte occidentale. (Stockholm, 1960) Milano, 1971, 105; per l’”inversione energetica” vedi p.e. Gombrich op.cit. 247-248, 320-321. Le due non hanno le stesse radici?

Tissoni Benvenuti ritiene carattere proprio della pittura e della letteratura di Ferrara la lunga persistenza dell’”idea della separazione”. (op.cit. n.47. 389-404)

Per il contenuto cristiano in forma antica nella prima metà del Quattrocento vedi Panczenko, R., Gentile da Fabriano and Classical Antiquity. In artibus et historiae 2/1980, 9-27, con la bibliografia precedente. Per Pisanello che crea nuovo contenuto dagli elementi formali dell’antichità vedi Schmitt, A., Herkules in einer unbekannten Zeichnung Pisanellos. Ein Beitrag zur Ikonographie der Frührenaissance. In Jahrbuch der Berliner Museen 17/1995, 51-86. Per i disegni antichi di Jacopo Bellini vedi Brown, P. F., The Antiquarianism of Jacopo Bellini. In artibus et historiae 26/1992, 65-84.

Ciriaco d’Ancona - in concomittanza delle sue intenzioni da archeologo, uno dei primi in età moderna - cercò di badare allo stesso tempo alla forma e al contenuto dell’antico: vedi per esempio i suoi disegni rappresentanti proprio dieci (!) fanciulle chiamate in parte ninfe, in parte muse, realizzati nel 1444-ben a Samothrake (Oxford, Bodleian Library Ms. Lat. Misc. D. 85, 137v. – 138v). Lehmann, Ph. W., Lehmann,K., Samothracian Reflections. Aspects of the Revival of the Antique. Princeton, 1973, 100-108.

Cito inoltre il suo disegno con l’iscrizione „Hiera Boule”, conservato sempre ad Oxford, idem (fol. 139v): una copia di una statua vista a Thasos, da allora andata perduta. Non è da escludere che sia la sua forma sia il suo senso potevano essere rilevanti nella Belfiore: il simbolo della saggezza della città è una figura femminile seduta, mezza nuda e senza braccia, la posa  della testa e delle gambe non assomiglia a quella della musa di Michele Pannonio. (Ashmole, B., A Lost Statue once in Thasos. In Fritz Saxl 1890-1948, A Volume of Memorial Essays from his friends in England, ed. by D. J. Gordon, Toronto, New York, 1957, 195-198).

[93] Dacos, N., Arte italiana e arte antica. In Storia dell’arte italiana I. Materiali e problemi. vol. 3. L’esperienza dell’antico, dell’Europa, della religiosità. Torino, 1979, 25.

 

 

                                                                                                                             (Traduzione di Zsuzsa Ordasi)